
Ognuno di noi, almeno una volta, ha udito la parola Inka ma raramente viene approfondito il profilo
storico di questo popolo che, nell’immaginario collettivo, viene ritenuto completamente estinto a
seguito dell’invasione spagnola; già nel XVI secolo la conquista aveva portato ad un governo
consolidato e con un diffuso controllo di gran parte del Sudamerica, Perù incluso.
Forse non tutti sanno che nel 1955 due antropologi, Oscar Nuñez del Prado e Efraìn Morote,
organizzarono una spedizione in una zona relativamente isolata del paese, la nazione Q’Ero.
Intervistando i membri della comunità ottennero una serie di informazioni molto interessanti circa
la conservazione nella memoria collettiva indigena riguardo alla prima versione del “mito di
Inkàri”, che riguarda la fondazione della civiltà inka da parte dello stesso Inkàri e della sua
compagna Qollari, mito che risulta essere assolutamente coerente con quanto riportato dai cronisti
che nel XVI secolo descrissero i tratti culturali degli Inkas del tempo. Una delle versioni
attualmente più note di questo mito prende il nome de “Il ritorno dell’Inka”, che rispecchia una
aspettativa messianica presente in tutto il mondo andino, così come successivamente scoperto da
altri antropologi nella seconda parte del secolo scorso. Inoltre Morote e Nuñez Del Prado
scoprirono che in questa comunità si era conservato l’uso dei “quipus”, registri fatti con corde e
nodi che tenevano una sorta di contabilità amministrativa dell’impero incaico, e lo stesso modo di
tessere e di vestirsi proprio degli Inkas del XVI secolo. Infine gli stessi Q’Ero si consideravano
discendenti degli Inkas. Tutte queste informazioni, sia quelle apportate da Rowe che quelle
apportate da Morote e Nuñez del Prado, dimostrano una continuità culturale tra gli inkas del XVI
secolo e gli indigeni contemporanei, continuità basata sul mantenimento sia degli aspetti
tradizionali della cultura incaica che di quelli più propriamente spirituali. Quando una continuità
culturale si manifesta in maniera così evidente, quando una tradizione spirituale e culturale si
mantiene viva, è logico affermare che la civiltà alla quale detti elementi sono riconducibili non sia
estinta ma sia, al contrario, viva e vegeta. È possibile trovare questo materiale dettagliato nella
pubblicazione “Q’Ero: el ultimo ayllu inka” edita da Instituto Nacional de Cultura del Perù.
Per una serie di circostanze coincidenti, sul finire degli anni ’70, Juan Nuñez del Prado (figlio
dell’Oscar precedentemente nominato) viene in contatto con una serie di maestri indigeni dell’area
di Cuzco (l’antica capitale dell’impero incaico chiamato Tawantinsuyo) e dell’area di Q’Ero. Questi
maestri rivelano a don Juan una serie di pratiche per lo sviluppo della coscienza che risultano
essere estremamente coerenti tra loro ed assolutamente risonanti con quanto affermato dalla
psicologia del profondo descritta dallo psicologo C.G. Jung come “processo di individuazione. Le
basi di questa tradizione poggiano su un’antica modalità di riferirsi al cosmo come un insieme di
energia vivente, energia che è nelle disponibilità dell’essere umano e che questi può utilizzare per
manifestare quello che sulle Ande viene chiamato “il seme dell’Inka” e che, in termini occidentali,
può essere descritto come la virtù originale, la parte divina o i talenti propri di ciascun individuo. La
modalità indigena di esplorare il cosmo fatto di energia vivente, di relazionarsi per esempio alla
Madre Terra, la Pachamama, nei sui differenti aspetti, al sole, al vento, all’acqua ed al sole, è una
modalità tipicamente percettiva, cioè basata sul “sentire”. Questa modalità risulta essere di enorme
vantaggio per noi esseri umani “occidentali”, la cui forma peculiare di conoscere il mondo è basata
fondamentalmente sul pensare. Molto spesso commettiamo l’errore che la soluzione dei nostri
problemi sia l’eliminare il pensare, ma questo di fatto snaturerebbe il nostro modo di essere; più
probabilmente il punto è quello di integrare, vale a dire di ridimensionare (pur senza annullarlo) il
nostro approccio razionalista verso il mondo, per lasciare così spazio al sentire, al percepire,
all’esplorare il mondo da un punto di vista dell’esperienza interiore.
TAWANTIN
robertosarti66@yahoo.com
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